Accade spesso un po’ di confusione quando si ordinano i quarzi per gli apparati di radiocomando. Vediamo di chiarire l’argomento: il canale di trasmissione, oltre ad essere contrassegnato da un numero attribuito dall’apposito Comitato Internazionale (ad esempio, canale 81), è caratterizzato dalla frequenza operativa (nel caso indicato 40.815 MHz), questo valore indica la frequenza a cui opera il trasmettitore, e quindi il quarzo installato nel TX è “tagliato” per oscillare proprio alla frequenza nominale del canale.

Per quanto riguarda il ricevitore, bisogna invece distinguere due casi:

• Ricevitore a singola conversione: il quarzo del ricevitore deve oscillare alla frequenza di trasmissione, meno il valore della media frequenza di conversione, che è fissa e negli attuali apparati vale 455 KHz (pari a 0.455 MHz); riprendendo l’esempio precedente relativo al canale 81, abbiamo che: 40.815 – 0.455 = 40.360 MHz – frequenza reale del quarzo da montare sul ricevitore.

• Ricevitore a doppia conversione: il quarzo del ricevitore deve oscillare alla frequenza di trasmissione, meno il valore della prima media frequenza di conversione, che è fissa e negli attuali apparati vale 10.7 MHz
(per informazione, la seconda media frequenza è anche in questo caso a 455 KHz, ma non influenza più il quarzo); riprendendo il solito esempio relativo al canale 81, abbiamo che: 40.815 – 10.7 = 30.115 MHz – frequenza reale del quarzo da montare sul ricevitore.

Nella pratica, i costruttori di radiocomandi marcano i quarzi da montare sui loro apparati con l’indicazione del canale e della frequenza nominale, in modo da non richiedere all’utente fastidiosi calcoli: ma la frequenza reale dei quarzi utilizzati sulle riceventi non corrisponde a quella stampigliata sul loro involucro. Questo spiega (almeno lo speriamo...) perché non si possono invertire i quarzi tra TX e RX, e il motivo della non intercambiabilità dei quarzi di ricezione fra RX a semplice e doppia conversione


    

Cerchiamo di capire meglio le reali peculiarità dei due sistemi

Non potevo più temporeggiare: ecco, quindi, l’articolo sulle radio PPM e PCM. Questa volta, però, l’argomento un po’ più complesso dei precedenti mi ha costretto ad un’esposizione degli aspetti teorici appena più completa e rigorosa del solito; mi auguro che anche voi lettori (almeno quelli che arriveranno a leggere tutto l’articolo...) alla fine converrete che valeva la pena d’impegnarsi un po’ di più nel prologo, per poi scoprire come va a finire!
 
Un po’ di storia
La maggioranza dei “non addetti ai lavori” tende oggi ad associare il mondo analogico con quello dell’elettronica classica (radio, televisione, telefonia), e ritiene le tecnologie digitali strettamente imparentate con le applicazioni più moderne (calcolatori, trasmissione dati, robotizzazione); ciò non è del tutto esatto. Effettivamente l’elettronica nasce, con l’invenzione della valvola termoionica (madre del transistor, nonna del circuito integrato...), strettamente lineare (cioè analogica), e le prime applicazioni riguardano essenzialmente le comunicazioni; successivamente, s’iniziano a studiare circuiti elettronici in grado di effettuare calcoli matematici, anche complessi, in modo rapido ed efficiente. Questa tecnologia raggiunge il suo massimo sviluppo nel periodo che precede la IIa  guerra mondiale: come sempre (purtroppo, mi sia consentito aggiungere), solamente le esigenze belliche sembrano spingere la ricerca al limite delle possibilità tecniche. Questa generazione di potenti “calcolatori analogici” venne infatti utilizzata sulle navi militari, allo scopo di effettuare i calcoli che consentono di ottenere i dati necessari al puntamento delle artiglierie imbarcate; infatti le centrali di tiro debbono elaborare una grande quantità di informazioni (rotta e velocità della nave attaccante, rotta e velocità della nave bersaglio, direzione e intensità del vento, periodo del rollio...) nel più breve tempo e con la massima precisione possibile. I dati sul tonnellaggio del naviglio distrutto nel corso degli anni ‘40 - ’45 confermano che l’obbiettivo fu pienamente raggiunto: ma la complicazione di progettazione, manutenzione e utilizzo di queste “macchine diaboliche”, irte di quadranti graduati, nonii, interruttori e indicatori convinse i progettisti dell’epoca che la tecnologia analogica, nel campo dell’elaborazione dei dati, aveva raggiunto il suo apice, ed occorreva pensare a qualcosa di totalmente nuovo. Questo “qualcosa” fu trovato, e segnò l’inizio della tecnologia digitale; vediamo, dunque, cosa significa tutto ciò.
 
e un po’ di teoria
(N.d.A. - la lettura di questo paragrafo è assolutamente vietata ai puristi!) Prendiamo una batteria, ad esempio quella che utilizziamo nel nostro ricevitore per radiocomando, e colleghiamola ad un comune tester a lancetta, analogico, per l’appunto; vedremo l’ago fermarsi su una posizione della scala, e leggeremo, poniamo, 5 volt. Poi, guardando meglio, cercheremo di apprezzare quanto valgono gli spazi tra le tacche della scala graduata, e saremo in grado di affermare che la batteria sta erogando 5,5 volt; è facile comprendere che, utilizzando un ipotetico strumento con l’indice lungo un metro, e dotato di una scala graduata conseguentemente larga, saremmo in grado di leggere, ad esempio, 5,543 volt. Questo significa che, in uno strumento elettronico analogico, la precisione dipende solo dalla bontà di realizzazione dello stesso, dalla sua stabilità e dalle capacità dell’operatore che lo usa (una buona vista, nel nostro caso...): non ci sono limiti, dal punto di vista teorico, alla possibilità di rappresentare qualsiasi valore, senza soluzione di continuità, appunto in modo lineare o, come si dice in elettronica, in modalità analogica. Connettiamo invece la stessa batteria ad un multimetro digitale: un modello commerciale ci offrirà una lettura con due decimali, vedremo perciò apparire le cifre 5.54; abbiamo un dato, certamente sufficientemente preciso per i nostri scopi hobbystici, ma, utilizzando uno strumento di quella classe, non potremo mai conoscere la terza cifra decimale... Perché, allora, nel volgere di pochi anni, il mondo digitale ha preso il sopravvento su quello analogico, in tutte quelle applicazioni in cui ciò è stato possibile? I motivi, ovviamente ci sono, e ben validi: vediamoli insieme. Riprendiamo in esame il “calcolatore analogico navale”, studiato nel corso di storia... per poter elaborare i dati relativi a velocità, rotta, ecc., questi venivano inizialmente convertiti in valori di tensione proporzionali alle grandezze da esaminare (ad esempio, ogni nodo di velocità, un volt), e poi “dati in pasto” ai circuiti elettronici successivi, destinati a sommarli, sottrarli, moltiplicarli, ecc., con le altre grandezze da introdurre nei calcoli. Fin qui, tutto semplice e chiaro; dov’è, allora, che nasce il problema? Nasce dal fatto che i circuiti elettronici analogici non possono comportarsi, nella realtà, così come li fa nascere, sulla carta, il progettista con i suoi calcoli: intervengono errori (detti, in gergo, “derive”) dovuti alla variazione della temperatura operativa, all’invecchiamento dei componenti, alle oscillazioni della tensione che alimenta i circuiti, e a molti altri fattori. In circuiti sufficientemente semplici si applicano le cosiddette “compensazioni”, e il tutto funziona in modo accettabile; ma quando la complessità cresce oltre un certo limite, l’enorme numero delle compensazioni da introdurre porta ad una sicura, e fatale, instabilità del tutto. Proprio a questo punto prese corpo l’idea di convertire subito le grandezze da introdurre in valori numerici, per poi poterle elaborare eseguendo i normali calcoli, cioè sommando, sottraendo, moltiplicando, ecc. direttamente numeri; e i numeri, si sa, non subiscono “derive”... occorreva solo la macchina adatta. Nasceva così il calcolatore numerico, o (il che è lo stesso) digitale. Prima di terminare questa parte introduttiva, ci resta da capire come questi valori numerici vengano “dati in pasto” al calcolatore, e in che modo questo li elabori al suo interno. Dal momento che tutti i circuiti utilizzati dalla logica digitale possono assumere solo due stati, cioè i valori 0 oppure 1, è necessario impiegare un sistema di numerazione adatto: questo si chiama “sistema binario”. Per comprendere come funziona, utilizziamo un esempio che impiega il più semplice componente elettronico, “binario” per antonomasia: l’interruttore, che per l’appunto può trovarsi solo nei due stati, acceso o spento, corrispondenti a 1 oppure a 0 logico. Abbiamo davanti a noi il “discendente” del “calcolatore analogico navale”, cioè il nuovo “calcolatore digitale navale”, e vogliamo introdurre una valore da elaborare (ad esempio, velocità in nodi, in una scala da 1 a 16), ovviamente in forma numerica: come potremmo procedere? La prima idea, probabilmente, sarebbe quella di utilizzare un pannello con 16 interruttori, e 16 led. Nel caso illustrato abbiamo evidentemente inserito il valore 5. Ragionando un po’, si scopre che questo tipo di codifica (detta “posizionale”) non rappresenta proprio il massimo dell’efficienza; senza voler ripercorrere tutto il cammino della logica binaria, vediamo che il modo più “sintetico” per rappresentare un numero utilizza la codifica detta “ponderale”. Abbiamo davanti un nuovo pannello, con soli 4 interruttori e 4 led in grado di rappresentare tutti i numeri da 0 a 15; per capire come funziona, basta sommare i valori attribuiti ai led accesi dai rispettivi interruttori: anche in questo caso, il valore rappresentato è 5 (4+1). E’ facile immaginare come sia possibile rappresentare, estendendo quanto visto finora, numeri più grandi: ad esempio, utilizzando un pannello con 8 interruttori e 8 led possiamo arrivare al valore di 255; il valore rappresentato sopra è 85 (64+16+4+1). Ebbene, probabilmente non ve ne sarete ancora accorti, ma avete imparato tutto quello che c’è da sapere per ragionare in termini “digitali”. La posizione (0 o 1) degli interruttori visti negli esempi precedenti simboleggia il famoso “bit”, l’unità basilare della notazione binaria; il pannello con otto interruttori rappresenta l’onnipresente “byte”, elemento fondamentale di tutti i circuiti basati su microprocessori. D’ora in poi, ad esempio, vi sarà facile affermare che il valore binario 10010010 rappresenta il decimale 146, e, applicando le regole del riporto uguali a quelle che si utilizzano nella normale aritmetica, verificare che: 01011100 + 10010001 = 11101101 il che equivale a: 92 + 145 = 237. Coloro che possiedono un personal computer equipaggiato con Windows 95 (o versioni successive) possono aprire (selezionando programmi, poi accessori) la calcolatrice gentilmente offerta da Bill Gates. Selezionandone la modalità “scientifica”, potranno facilmente esercitarsi ad effettuare conversioni tra i due sistemi di numerazione, decimale e binario. Ed ora, finalmente, mi accingo a dimostrarvi (almeno, così spero...) che tutto quello che avete faticosamente letto finora non era poi completamente inutile.

I nostri radiocomandi: PPM o PCM?
Anche il radiocomando proporzionale, come il “calcolatore navale”, è nato puramente analogico; e tale è rimasto anche quando sono state aggiunte le prime, rudimentali possibilità di programmazione e miscelazione di alcune funzioni (ad esempio: inversione del senso di rotazione dei servi, associazione del movimento del direzionale a quello degli alettoni). In seguito, l’esigenza di offrire sempre nuove, e più sofisticate possibilità operative, ha spinto anche in questo campo i costruttori a passare alla modalità digitale, dando così inizio all’era dei sistemi “computerizzati”. Attualmente la quasi totalità degli apparati per radiocomando in commercio, con la sola eccezione delle radio più semplici ed economiche, funziona impiegando microprocessori, più o meno complessi; ma il fatto di utilizzare tecnologie digitali nella fase di elaborazione dei comandi non ha nulla a che vedere con la modalità di trasmissione del segnale radio, cioè con la modulazione, che può essere PPM (Pulse Position Modulation = modulazione a posizione d’impulsi) o PCM (Pulse Code Modulation = modulazione a codifica d’impulsi). Anzitutto, per non ripetermi, consiglio di rileggere l’articolo “Parliamo di servi”; qui viene spiegato in che modo vengono codificati gli impulsi, trasmessi dalla radio, destinati a posizionare i servi connessi al ricevitore in un ipotetico radiocomando di tipo semplice, cioè completamente analogico. Vediamo ora di chiarirci bene le idee sulla modulazione; per prima cosa esaminiamo lo schema a blocchi di un moderno sistema PPM. La posizione assunta da ciascuno stick di comando posto sul trasmettitore genera una tensione proporzionale (analogica) tramite il potenziometro ad esso associato; il convertitore analogico-digitale provvede a trasformare tali tensioni in valori numerici (digitali). Questi dati vengono inviati al microprocessore, che li elabora per mezzo del programma in esso contenuto, tenendo conto anche del modello selezionato e delle relative miscelazioni impostate dall’utente. I risultati così ottenuti sono inviati al convertitore digitale-analogico, che provvede a ricreare i consueti impulsi, di durata compresa tra 1 e 2 millisecondi, destinati a pilotare i servi; occorre notare che questi segnali non sono più strettamente di durata proporzionale alla posizione degli stick, poiché il loro valore è stato “corretto” dai parametri, relativi al modello in uso ed alle relative miscelazioni, presenti nella memoria del trasmettitore. Il multiplexer provvede a “serializzare” (cioè a mettere in sequenza) gli impulsi da inviare a ciascun servo, ed il modulatore trasmettitore genera il segnale a radio-frequenza da inviare all’antenna. Nella ricevente, lo stadio ricevitore-demodulatore provvede a decodificare il segnale radio, e lo converte nel solito treno d’impulsi; il demultiplexer separa ciascun impulso della catena, e provvede ad inviarlo al relativo servo. Prendiamo ora in esame lo schema a blocchi di un sistema che opera in PCM. Per quanto riguarda il trasmettitore, occorre notare che non viene più effettuata la conversione digitale-analogica prima dello stadio modulatore: di conseguenza, il segnale a radiofrequenza emesso viene ora modulato direttamente dai valori numerici che rappresentano la posizione che ciascun servo dovrà assumere. Nel ricevitore questi dati, dopo essere stati ricostruiti dal demodulatore, vengono inviati ad un microprocessore, che li elabora, e provvede poi a generare i singoli impulsi, sempre di durata compresa tra 1 e 2 millisecondi, destinati a pilotare i servi. Non è facile, a colpo d’occhio, individuare gli eventuali vantaggi di questa configurazione; occorre infatti, a questo punto, introdurre un nuovo concetto: il controllo della validità dei dati ricevuti. Nel sistema PCM, al termine di ogni “stringa” di dati (la sequenza dei byte che contengono le informazioni relative alla posizione di tutti servi da pilotare), il microprocessore presente nel trasmettitore aggiunge un particolare byte, opportunamente calcolato a partire dai singoli byte presenti nella stringa relativa, denominato “checksum” (somma di controllo); il microprocessore posto nel ricevitore, al termine della ricezione di ciascuna stringa, ricalcola la checksum, e la confronta con quella ricevuta via radio: se i due valori coincidono, la stringa viene processata, e sono generati i conseguenti impulsi destinati ai servi; altrimenti viene scartata. A questo punto, siamo in grado di fare un po’ di chiarezza circa le tante affermazioni che spesso ascoltiamo frequentando i campi di volo... Anzitutto, il sistema PCM non è immune dai disturbi (se qualcuno pensa di essere in grado di ricostruire un dato non ricevuto, si faccia pure avanti: il Nobel lo aspetta!): semplicemente, è in grado di accorgersi quando ha ricevuto dati corrotti da disturbi o interferenze. Venendo finalmente ai nostri modelli, ciò significa che non vedremo più movimenti saltuari ed inconsulti di qualche servo, dovuto a segnali impulsivi interferenti, purché questi siano di breve durata: se, infatti, l’assenza di stringhe valide permane per un determinato numero di cicli consecutivi (questo valore viene fissato dal costruttore e non è modificabile), subentra un altro meccanismo di sicurezza, detto “Fail Safe”. Se questa funzione è stata attivata dal modellista sul proprio sistema, quando il ricevitore si accorgerà di aver perso irrimediabilmente il segnale emesso dal trasmettitore, piloterà automaticamente ciascun servo fino a fargli raggiungere la posizione che gli è stata assegnata durante la configurazione della funzione Fail Safe. Terminata la trattazione tecnica del PCM, sorge spontanea la domanda: quanto sono utili nella pratica, queste prestazioni aggiuntive? Ognuno di voi, ormai, è in grado di trarre le proprie, personali conclusioni; voglio però raccontare un breve episodio personale. Poco dopo aver lanciato uno slow-flyer, equipaggiato con un micro RX PPM, ho cominciato a notare strani movimenti del direzionale, seguiti da un non richiesto incremento di giri del motore; mi sono subito accorto di non aver estratto l’antenna del TX, e ho posto prontamente rimedio all’errore. Se avessi utilizzato un apparato PCM, il sistema avrebbe scartato i comandi ricevuti in modo non corretto, fino a perdere il collegamento radio; non essendo stato messo sull’avviso dal comportamento anomalo del modello, sarei stato in grado di accorgermi ugualmente dell’errore in tempo utile? Per quanto riguarda la modalità Fail Safe, la ritengo effettivamente utile per ridurre le conseguenze di un’eventuale perdita di controllo, in particolare per quanto riguarda modelli dotati di una certa riserva di autostabilità; certo, che nessuno pensi di poter salvare dalla catastrofe un elicottero che perda il collegamento radio mentre vola in hovering rovescio... Personalmente, penso che gli apparati PCM attualmente in commercio rappresentino una fase di transizione tra i sistemi completamente analogici, destinati prima o poi a scomparire, ed una nuova generazione di radiocomandi completamente digitali, circa i quali voglio esprimere qualche previsione prima di concludere quest’articolo; diamo, perciò...

Uno sguardo al futuro
Esaminiamo quello che (penso) sarà il nostro prossimo radiocomando. Nel trasmettitore, i potenziometri, componenti meccanici soggetti ad usura ed invecchiamento, sono stati sostituiti dagli encoder ottici digitali: questi componenti sono in grado di trasformare l’angolo cui viene ruotato l’alberino di comando in un dato digitale, direttamente inviato al microprocessore, eliminando così il convertitore analogico-digitale, a tutto vantaggio della stabilità e della precisione. Per quanto riguarda il ricevitore, devo anzitutto spiegare il significato della dicitura “servi completamente digitali” che compare nello schema a blocchi. I nuovi modelli di servi, recentemente commercializzati con l’appellativo “digitali”, sono in realtà ibridi, cioè in parte realizzati con tecnologia digitale, in parte con tecnologia analogica. La novità, rispetto ai servi tradizionali, consiste nell’aver utilizzato un microprocessore per controllare il micromotore; ciò consente un netto miglioramento delle prestazioni, dal momento che in tal modo è possibile variare la velocità di rotazione della squadretta di comando, mantenendola elevata all’inizio del movimento, per poi rallentarla quando sta per essere raggiunta la posizione di destinazione, in modo da conciliare le esigenze di alta velocità ed elevata precisione. Ma, per mantenere la compatibilità con le riceventi oggi universalmente impiegate, il pilotaggio avviene ancora con l’impulso di durata variabile tra 1 e 2 millisecondi: in altre parole, in questo stadio circuitale è ancora presente, comunque, un segnale di tipo PPM! Nello schema da me proposto, invece, ipotizzo l’impiego di una nuova generazione di servi, completamente digitali, anche nei segnali di pilotaggio; di conseguenza, sui connettori del ricevitore destinati al collegamento dei servi, sono presenti non più gli impulsi di durata variabile, ma dati in formato digitale. In conclusione, vediamo come non siano più presenti stadi analogici: la migrazione al mondo digitale è finalmente completa! Quando sarà pronta questa nuova meraviglia? Personalmente, sono convinto che nel cassetto dei più importanti costruttori di radiocomandi siano già presenti circuiti e prototipi; la tecnologia attuale consente lo sviluppo di simili apparati senza particolari difficoltà. Piuttosto, occorre constatare che l’introduzione di questi nuovi radiocomandi comporterà la sostituzione totale di una grande quantità di materiale (riceventi, servi...) attualmente posseduto da ciascun modellista; di conseguenza, i costruttori staranno certamente sviluppando accurate valutazioni di marketing, prima di commercializzare un prodotto destinato ad avere un così grosso impatto sul mercato modellistico.

Ultime note
Mi accorgo che stavolta il discorso è stato particolarmente lungo; comunque l’aver illustrato, oltre i sistemi PPM e PCM, anche i rudimenti della tecnologia digitale, tornerà utile a tutti i modellisti, dal momento che l’utilizzo dei microprocessori si estenderà sempre più nel prossimo futuro. Non accludo una bibliografia, perché la vastità degli argomenti cui abbiamo accennato comporterebbe la necessità di allegare l’intero elenco dei volumi presenti in una biblioteca universitaria. Piuttosto, se qualche lettore avvertirà l’esigenza di approfondire un particolare argomento cercherò di indirizzarlo adeguatamente; spero di essere in grado di rispondere, perché nel frattempo ho sentito dire che la setta dei puristi sta cercando di assoldare un killer, per gambizzarmi...
 

              

Non sto parlando della camera d’albergo da prenotare in occasione della vostra prossima gara automodellistica (comunque, nel caso vi accompagnasse Naomi, consiglio vivamente la doppia...), ma del tipo di conversione impiegata sui nostri attuali ricevitori per radiocomando. Mi è sembrato infatti che ci sia carenza di informazione in materia: cercherò di chiarire i principi di funzionamento delle due tipologie, senza addentrarmi in particolari troppo tecnici (spero che i puristi perdoneranno le inevitabili semplificazioni).

Un po’ di storia
Agli albori del nostro hobby venivano impiegati ricevitori assai semplici:
1) Il circuito di sintonia è sintonizzato sulla frequenza emessa dal trasmettitore.
2) Lo stadio rivelatore ricostruisce il segnale, generato dal trasmettitore, che contiene le informazioni relative alla posizione dei comandi.
3) Il circuito di decodifica estrae dal segnale ricostruito dal rivelatore i comandi da inviare agli attuatori.
Il principale difetto di questo circuito consiste nella cattiva selettività, cioè dalla scarsa capacità di scartare segnali interferenti aventi frequenza vicina a quella emessa dal relativo trasmettitore. Supponiamo infatti di operare sul nostro attuale canale 81, cioè alla frequenza di 40.815 MHz, e di ricevere in antenna anche un segnale interferente a 40.835 MHz (canale 83); la frequenza differenza tra le due sarà pari a: 40.835 – 40.815 = 0.020 MHz. Rispetto alla frequenza di lavoro, in percentuale, questo valore è: 0.020 : 40.815 x 100 = 0.049 % ; non esistono stadi rivelatori che possano discriminare frequenze contigue così prossime. In altre parole il nostro modello, sul quale avessimo installato questo ipotetico ricevitore, in presenza di una emissione radio su una frequenza prossima alla sua, sarebbe inesorabilmente destinato al volo libero... Simili ricevitori non sono più in uso da svariati anni; ho descritto questo circuito perché contribuirà alla comprensione di quanto vedremo in seguito.

Supereterodina a singola conversione
Il ricevitore attualmente più utilizzato nei nostri radiocomandi è come segue: lo stadio preamplificatore ha il compito di adattare i segnali provenienti dall’antenna ai requisiti richiesti dai circuiti successivi; in particolare, in questo stadio è presente il circuito A.G.C. (Automatic Gain Control = controllo automatico di guadagno), che limita l’amplificazione in presenza di segnali forti, allo scopo di evitare la saturazione degli stadi che seguono. Lo stadio oscillatore è pilotato dal quarzo di ricezione: questo deve avere una frequenza di oscillazione pari a quella del quarzo di trasmissione, meno il valore della frequenza intermedia, che in questi apparati è pari a 455 KHz (usando il canale 81 dell’esempio precedente: 40.815 – 0.455 = 40.360 MHz). Il mixer effettua la miscelazione dei segnali provenienti dal preamplificatore e dall’oscillatore; tenendo conto di quanto detto sopra, alla sua uscita sarà sempre presente un segnale avente frequenza pari a 455 KHz (nel solito esempio: 40.815 – 40.360 = 0.455 MHz). Lo stadio a frequenza intermedia è accordato sulla frequenza di 455 KHz, ed ha il compito di eliminare tutte le altre frequenze presenti al suo ingresso. Lo stadio rivelatore ricostruisce il segnale, generato dal trasmettitore, che contiene le informazioni relative alla posizione dei comandi. Il circuito di decodifica estrae dal segnale ricostruito dal rivelatore i comandi da inviare ai servi. A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: perché tante complicazioni (cambi di frequenza, miscelazioni, ecc.) A cosa serve tutto ciò? Ovviamente la risposta è: serve, eccome se serve! Riprendiamo l’esempio del ricevitore che lavora a 40.815 MHz, ed è interferito da una frequenza di 40.835 MHz: bene, all’uscita del mixer della nostra supereterodina troveremo entrambe i segnali, convertiti di frequenza, il primo a 40.815 – 40.360 = 0.455 MHz, il secondo a 40.835 – 40.360 =0.475 MHz. La differenza in frequenza tra i due segnali è ovviamente rimasta invariata (475 – 455 = 20 KHz), ma percentualmente i nuovi calcoli ci dicono che rispetto alla frequenza di lavoro, il segnale interferente sarà scostato di: 20 : 455 x 100 = 4.39 % ! Lo stadio a frequenza intermedia che segue, accordato a 455 KHz, sarà agevolmente in grado di eliminare un segnale che dista dalla sua propria frequenza di oltre il 4%. Questo spiega perché l’impiego del circuito supereterodina è assolutamente necessario, se ci si vuole proteggere da segnali non voluti, sia che questi siano emessi da altri radiocomandi che operano su canali adiacenti al nostro, sia che vengano generati da impianti radio destinati alle comunicazioni.

Supereterodina a doppia conversione
Negli ultimi tempi sono stati presentati, e stanno ottenendo notevole successo commerciale, i nuovi ricevitori a doppia conversione: vediamo come funzionano, e se il loro impiego è veramente conveniente. Lo stadio preamplificatore è identico a quello descritto nel ricevitore a singola conversione. Il 1° stadio oscillatore è pilotato dal quarzo di ricezione: questo deve avere una frequenza di oscillazione pari a quella del quarzo di trasmissione, meno il valore della prima frequenza intermedia, che in questi apparati è pari a 10.7 MHz (usando il canale 81 dell’esempio precedente: 40.815 – 10.7 = 30.115 MHz). Il 1° mixer effettua la miscelazione dei segnali provenienti dal preamplificatore e dal primo oscillatore; tenendo conto di quanto detto sopra, alla sua uscita sarà sempre presente un segnale avente frequenza pari a 10.7 MHz (nel solito esempio: 40.815 – 30.115 = 10.7 MHz). Il 1° stadio a frequenza intermedia è accordato sulla frequenza di 10.7 MHz, ed ha il compito di eliminare tutte le altre frequenze presenti al suo ingresso. Il 2° stadio oscillatore è pilotato da un quarzo, non intercambiabile, posto all’interno del ricevitore: questo deve avere una frequenza di oscillazione pari a quella della prima frequenza intermedia, meno il valore della seconda frequenza intermedia, che in questi apparati è ancora pari a 455 KHz, quindi 10.7 - 0.455 = 10.245 MHz. Il 2° mixer effettua la miscelazione dei segnali provenienti dalla prima frequenza intermedia e dal secondo oscillatore; tenendo conto di quanto detto sopra, alla sua uscita sarà sempre presente un segnale avente frequenza pari a 455 KHz (10.7 – 10.245 = 0.455 MHz). Il 2° stadio a frequenza intermedia è accordato sulla frequenza di 455 KHz, ed ha il compito di eliminare tutte le altre frequenze presenti al suo ingresso. Lo stadio rivelatore e il circuito di decodifica sono identici a quelli descritti nel ricevitore a singola conversione. Anche qui vale l’equazione: maggiore complicazione = migliori prestazioni. Con alcuni semplici passaggi matematici (così diceva sempre il mio professore di Fisica, prima di riempire sei metri quadri di lavagna con un’interminabile sequela di equazioni...) si dimostra che l’utilizzo di due successive conversioni di frequenza comporta un nuovo, importante incremento nella selettività del ricevitore; ciò significa che, a parità di ogni altra condizione (potenza del trasmettitore, sensibilità del ricevitore, antenne, ecc.) otterremo sempre una migliore reiezione (è il corretto termine tecnico, vuol dire rigetto) dei segnali e dei disturbi presenti su frequenze immediatamente adiacenti a quella su cui operiamo. Allora, è conveniente l’impiego di un ricevitore a doppia conversione? Tenendo presente che i vantaggi descritti sopra non hanno alcuna contropartita negativa (a parte, ovviamente, il maggior costo...), e che le frequenze radio sono, e saranno sempre più, affollate dal proliferare di nuovi servizi, la risposta può essere una sola: sì, incondizionatamente sì!

Ultime note
Negli ultimi tempi ho avuto modo di constatare che c’è spesso confusione tra i termini doppia conversione e PCM: probabilmente ciò è dovuto al fatto che, quasi sempre, i ricevitori di fascia alta possiedono entrambe queste caratteristiche. In realtà, non c’è nessun nesso tra le due prestazioni: possono esistere ricevitori PPM a doppia conversione (e in commercio ne sono presenti alcuni) e ricevitori PCM a singola conversione. PCM, infatti, è l’acronimo di Pulse Code Modulation... ma no, il discorso è interessante, ma diventerebbe troppo lungo! (e poi ne abbiamo già parlato...).